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A Roma il calcio non è uno sport, è una religione

DISCLAIMER: questo articolo non è di parte, lo avremmo scritto per qualsiasi squadra di Roma. Non potevamo esimerci dal raccontare cosa è successo in città in questi giorni, super partes.

Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio.
(Albert Camus)

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.
(Pier Paolo Pasolini)

Il calcio costituisce oggi con la musica leggera il solo sfogo dinamico e culturale d’una popolazione nelle cui vene è ormai dubbio che perdurino molti globuli ereditati dai santi e dagli eroi, dai navigatori e dai martiri ai quali si rifà graziosamente la storia imparata a scuola.
(Gianni Brera)

Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre.
(Winston Churchill)

Abbiamo voluto cominciare da questi aforismi per inquadrare il concetto: il calcio a Roma non è uno sport, è una religione. E non una religione occidentale, che ormai raccoglie qualche migliaio di fedeli annoiati giusto alle affacciate del Papa a San Pietro (sempre a Roma peraltro).

Il calcio ha un trasporto religioso paragonabile a quelli che vediamo alla fine del Ramadan alla Mecca, o in India durante la Kumbh Mela quando gli induisti si immergono nel Gange. Qualcosa che non appartiene più al nostro mondo.

Se l’Italia entrasse in guerra e poi ne uscisse, neanche per la fine della guerra si vedrebbero scene come quelle viste in questi giorni a Roma. Non esiste un rito comune di questa intensità, non esiste una una gioia collettiva paragonabile a quella del calcio. Non esiste un’emozione condivisa e trasversale come quella provocata da “22 uomini che rincorrono un pallone”.

Proprio in queste occasioni chi predica questa teoria svilente si azzittisce e, anzi, magari si fa anche un giro al Circo Massimo. Perché il vero spettacolo è proprio la gente che appartiene a questo movimento, molto più di chi lo pratica, un teatro in cui il protagonista è la platea. All’Olimpico mercoledì non c’era la partita, non c’era un solo giocatore, eppure è stato uno spettacolo visto in tutto il mondo.

Perché se la tragedia collettiva calcistica è ugualmente potente, il giubilo è molto più scenografico. All’Olimpico, allo stadio di Tirana, a Testaccio, a Piazza del Popolo, al Circo Massimo, a Ponte Milvio, a Trastevere, a Monte Sacro, a piazza Venezia, per le strade di Roma.

Una rappresentazione moderna delle marce trionfali dell’Impero Romano con le corone d’alloro, Roma è la scenografia perfetta. Chi capisce che a Roma il calcio è un’altra cosa ha già vinto, non siamo a Rotterdam, non servono schemi serve pathos, la parte irrazionale dell’animo, il tono di passionalità, concitazione, grandezza, proprio della tragedia. E Mourinho questo lo ha capito benissimo.

C’era anche lui nella bolgia di ieri. Da fuori bandiere, cori, colori, fumogeni, fiumane. Da dentro braccia al cielo, abbracci con sconosciuti, dita sulle orecchie vicino ai petardi, incontri con conoscenti che diventano migliori amici, clacsonate più forti di quando ti bloccano la macchina, sensazione di partecipare alla Storia.

E se il calcio divide solo a forza di sfottò, unisce visceralmente. Mercoledì sera dopo la partita e ieri durante il tour del pullman erano tutti lì, sorridenti, sinceramente felici, sinceramente fratelli.

Perché il calcio non è solo spettacolo, non è solo evasione, è anche appartenenza, euforia, entusiasmo, individuazione di se stessi. Chi non segue il calcio a Roma si perde qualcosa, qualcosa che non potrà mai ritrovare in nessun club di lettura, in nessun cinema d’essai, in nessuna sala concerti. Per questo anche gli “occasionali” sono usciti a festeggiare, perché era un’occasione semplicemente imperdibile.

C’era di tutto per strada, categorie che solo il calcio può unire, saltavano e cantavano abbracciati insieme muratori e ingegneri, leghisti e comunisti, anziani e generazione Z, pariolini e borgatari, Curva Sud e Tribuna d’Onore.

Photo credit: Francesco Buccolieri

Il calcio unisce, crea relazioni e le mantiene. Alimenta comitive, gruppi di amici, circoli, coppie. Amici di una vita che ormai in comune hanno solo la passione per la squadra che tifano. E famiglie, padri e figli, padri e figlie, madri e figli, madri e figlie che con la scusa del calcio riescono a scrollarsi di dosso quell’imbarazzo adolescenziale che crea distacco da una certa età in poi. Questo è il potere del calcio, non un potere temporale, un potere spirituale.

Il calcio è più di una religione, è l’unica religione al mondo che non ha atei.

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